Prima ancora di aprire gli occhi del tutto, il pollice ha già trovato lo schermo del tuo telefonino e la luce abbaglia i tuoi occhi ancora assonnati e il cervello viene inondato di informazioni.
Sembra un gesto innocuo, normale, un riflesso oramai automatico.
Controlli l’ora e se c’è qualche messaggio importante, e in un attimo ti trovi a scrollare reel che partono da soli, storie che si susseguono come diapositive di vite che non sono la tua… vite che, in fondo, non cambierebbero di una virgola la tua giornata se non le vedessi.
Frammenti di realtà vissuta da altri che svuotano la tua quotidianità scroll dopo scroll.
Ti dicono che è connessione, che è il modo più rapido per essere “aggiornati”. In realtà è un anestetico potentissimo: ti tiene sveglio fuori e profondamente addormentato dentro.
Ne siamo tutti consapevoli, eppure sembra che non possiamo farne a meno.
Da parole pesate a emozioni effimere
Questa frase oggettivamente è da boomer, ma purtroppo ha anche molta verità. Una volta una lettera impiegava giorni, a volte settimane, per arrivare a destinazione. Ogni parola era scelta con cura, perché sapeva di aspettare. Una telefonata era un piccolo evento: ci si sedeva, si prendeva il ricevitore, si abbassava la voce per non disturbare, si scarabocchiava qualcosa sull’agenda mentre ci si raccontavano le ultime novità.
È come se stessimo perdendo la capacità di comunicare, in un mondo che è basato sulla comunicazione.
Oggi parliamo in meme, reaction, gif, emoji, reel, storie da 24 ore che svaniscono come se non fossero mai esistite. Il messaggio, nella maggior parte dei casi quasi del tutto inesistente, non deve più resistere al tempo: deve solo sopravvivere all’algoritmo per qualche secondo prima di essere seppellito dal prossimo contenuto.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: ridiamo davanti a un gatto che si spaventa vedendo un cetriolo, ma non riusciamo più a sostenere cinque minuti di conversazione vera senza sentire il bisogno di controllare il telefono.
L’iper-saturazione dei social
Oramai i social sono saturi, i contenuti sono tutti uguali, l’originalità è virale per qualche giorno e poi avanti il prossimo e su cento contenuti, novantacinque sono insignificanti, particolarmente noiosi o stupidi, e addirittura pericolosi, per coloro che sono sensibili e innocenti.
Solo pochissimi hanno un piccolo messaggio al proprio interno, notizie effettivamente importanti, messaggi positivi e motivanti e bellezza, ma questo viene spesso seppellito dall’algoritmo che continua indefesso a proporti spazzatura.
Siamo una civiltà di cercatori di micro-dosi di dopamina: un cuoricino, una fiamma sotto un commento, una reaction… Ogni interazione è una piccola scarica elettrica che ci fa sentire vivi per un istante ma quando finisce, resta il vuoto. E l’unico modo per riempirlo è scorrere ancora.
I numeri sono impietosi: passiamo in media più di due ore e mezza al giorno sui social (e in certi Paesi il dato sfiora le quattro ore), l’attenzione media per un singolo contenuto è scesa sotto gli otto secondi, e una larga maggioranza dei giovani sotto i trent’anni dichiara di provare ansia se il telefono non è a portata di mano entro pochi istanti dal risveglio. Siamo passati dall’essere connessi all’essere dipendenti.
La solitudine al tempo dell’iper-connessione
Più amici virtuali abbiamo, più ci sentiamo soli. Lo dicono tutti gli studi recenti: chi supera le tre ore giornaliere sui social ha una probabilità significativamente più alta di sintomi depressivi e ansia cronica. Confrontiamo la nostra vita reale – con le sue imperfezioni, le sue pause, i suoi silenzi – con i momenti migliori, filtrati e illuminati ad arte, degli altri.
E perdiamo sempre.
Si chiama narcisismo liquido: l'identità si plasma sull'altro o sui feedback sociali, generando relazioni effimere e una costante ansia, una sorta di dispersione dell'io che non riesce a trovare una forma stabile. Postiamo non per condividere qualcosa di vero, ma per essere visti, applauditi, confermati. Quando i like non arrivano, o arrivano meno del previsto, ci sentiamo sbagliati, non visti, e allora cerchiamo di fare ciò che piace agli altri, quando va bene, o peggio ciò che piace all’algoritmo.
Il paradosso della FOMO e la JOMO: due facce della stessa prigione
Hai ragione: se ci pensi bene, né la FOMO (Fear of missing Out) né il JOMO (Joy of missing out) hanno davvero senso quando li guardiamo da vicino.
Sono due polarità opposte nate dallo stesso identico presupposto: che esista un “posto giusto” e un “posto sbagliato” in cui essere in un dato momento.
- La FOMO dice: «Sto nel posto sbagliato, devo assolutamente essere altrove (dove stanno tutti gli altri)».
- Il JOMO dice: «Sto nel posto giusto, probabilmente sul divano, e sono contento che gli altri vivano la vita altrove».
Entrambe presuppongono che la mia esperienza abbia bisogno di essere validata o confrontata con quella collettiva. Entrambe partono dall’idea che esista un “centro” delle cose – un evento, un trend, un momento clou – e che io debba posizionarmi rispetto a quel centro: o dentro (FOMO) o felicemente fuori (JOMO).
Il JOMO, rischia di diventare l’ennesima posa:
«Io sono più evoluto di voi perché sono felice di perdermi le vostre storie vuote».
Diventa un nuovo modo di sentirsi superiori, un nuovo filtro mentale da applicare alla vita.
Il meme-marketing: la nuova lingua universale della pubblicità
I meme non sono più solo battute tra amici. Sono diventati il linguaggio più potente del marketing perché parlano direttamente al cervello: veloce, emotivo, immediatamente condivisibili, e seppure il concetto di meme-marketing non è nulla di nuovo, essendoci già state in passato battaglie di meme molto intense tra Coca-Cola e Pepsi, McDonald e Burger King, oramai è palese che questo è diventato il mezzo prediletto di comunicazione di tante grandi aziende come Lidl, Ryanair, Netflix, Taffo, Starbucks e di tantissime altre piccole e piccolissime, che si stanno lanciando in questa divertente, e anche molto pericolosa battaglia di meme.
Il meme non vende più il prodotto. Vende appartenenza. Ti fa percepire come “uno di noi”. Il problema è che arriva il prossimo meme, e tu sei già passato di moda.
Il meme marketing, sebbene offra engagement elevato e costi contenuti, presenta rischi significativi. Può generare crisi reputazionali improvvise per contenuti percepiti come irrispettosi, e causare problemi legali per l’uso non autorizzato di immagini. Il messaggio può facilmente essere manipolato e sfuggire al controllo, e rischia di erodere l’autorevolezza dei brand premium. In sintesi, è una strategia potente ma ad altissimo rischio, ma anche molto divertente.
La distrazione collettiva: quando il telefono ci accompagna ovunque
Non è più solo una questione personale. È un fenomeno di massa: attraversiamo la strada con lo sguardo incollato allo schermo, guidiamo con un occhio alla carreggiata e uno al feed, partecipiamo a una riunione mentre il telefono vibra sotto il tavolo.
Secondo l’AAA Foundation (2025), l’uso dello smartphone al volante aumenta di 4-6 volte il rischio di incidente, e ricerche classiche (Redelmeier & Tibshirani) mostrano aumenti simili di rischio in vari contesti eppure la maggior parte dei guidatori non attiva nemmeno la modalità “non disturbare”. Uno studio su Transportation Research (2024) ha mostrato che, in contesti complessi (traffico intenso, lavoro sotto pressione), la tentazione di controllare il telefono diventa irresistibile perché “lo fanno tutti”.
Il multitasking digitale ci fa credere di essere più efficienti, ma in realtà riduce la produttività fino al 40 % e lascia un senso di stanchezza cronica (rassegne e lavori sulla switching cost: Rubinstein, Meyer & Evans, 2001; interventi divulgativi su dati APA).
Siamo una società intera che cammina, parla, guida e lavora con l’attenzione spezzata in due.
La distrazione non è più un difetto individuale: è diventata la norma collettiva.
E finché la consideriamo normale, resta invisibile.
Piccole pratiche rivoluzionarie
Non serve cancellare tutto, non serve diventare eremiti digitali. Bastano gesti semplici, quotidiani, quasi invisibili:
- Disattiva tutte le notifiche push – sì, tutte, senza eccezioni.
- Passa il telefono in scala di grigi: i colori sono progettati apposta per ipnotizzarti.
- Regola dei 60 minuti: prima di accendere il telefono al mattino, aspetta 60 minuti. Inizia la tua routine mattutina senza distrazioni, perché quasi mai c’è qualcosa di così urgente da non poter aspettare un’ora.
- Prima di postare, chiediti con onestà: «Sto condividendo qualcosa di utile o sto mendicando attenzione?»
- Una sera a settimana dichiarata “digital free”: cena, chiacchiere, sguardi negli occhi, niente schermi.
- Niente telefono a letto.
La vera rivoluzione inizia dal silenzio
In un mondo che urla per avere la tua attenzione 24 ore su 24, trovare il silenzio interiore è l’atto più difficile che esista.
Spegni lo schermo.
Siediti.
Respira.
Ascolta cosa resta quando il rumore finalmente finisce.
Lì c’è tutto lo spazio di cui hai bisogno per ricordare chi sei.
La vera rivoluzione inizia dal silenzio.
Un breve post-scriptum per chi lavora nella comunicazione (come noi)
Noi di zen0lab viviamo dentro i social tutti i giorni: li studiamo, li progettiamo, li usiamo per i nostri clienti
Non siamo fuori dal gioco, né vogliamo uscirne.
Però abbiamo scelto una regola semplice e prima di creare un contenuto ci chiediamo sempre tre cose:
- Questo contenuto nutre chi lo riceve o nutre solo l’algoritmo?
- È fatto per durare?
- Dopo averlo visto, la persona come si sentirà?
Se la risposta a una di queste domande è negativa, torniamo al tavolo e ricominciamo.
Essere un’agenzia di comunicazione moderna oggi non significa inseguire ogni trend o inondare i feed. Significa usare quegli stessi strumenti che critichiamo in maniera intelligente e diversa, non per tenere le persone incollate, ma per comunicare con il mondo, eticamente.
La rivoluzione inizia dal silenzio.
Anche dentro un’agenzia di comunicazione.
Video editor & Sound designer